Viti Tea, a che punto è la ricerca?
La vite è una pianta che avrebbe bisogno di un "tagliando genetico" per essere più sostenibile e resiliente ai cambiamenti climatici. Abbiamo visitato i centri di ricerca che in Italia utilizzano le Tea e che hanno pronte diverse varietà resistenti ai funghi e più adatte ad un clima che cambia

La vite è una coltura che può giovarsi delle Tea (Foto di archivio)
Fonte immagine: © sjri - Adobe Stock
La vite è il dinosauro delle nostre campagne. Molte varietà hanno centinaia di anni alle spalle e altre, come il Traminer, addirittura novecento. In tutti questi anni la loro propagazione è avvenuta per via vegetativa, attraverso le talee. Questo significa che le piante che oggi popolano i nostri vigneti sono sostanzialmente cloni di quelle coltivate un tempo, quando in Europa peronospora e oidio non erano presenti e quando il clima era molto diverso rispetto ad oggi.
Come ha ricordato il professore Attilio Scienza in un convegno che ho recentemente moderato, "noi ci ostiniamo a coltivare delle varietà che non sono più adatte al mondo attuale. Serve dunque un ripensamento radicale della viticoltura, a partire dalle varietà utilizzate in campo fino ad arrivare alle tecniche agronomiche".
Già, la genetica. Di miglioramento genetico, della vite da vino, ne è stato fatto molto poco. E i motivi sono molteplici. Da un lato la struttura delle denominazioni d'origine ha ingessato il sistema produttivo, legando spesso la qualità di un vino ad un vitigno, invece che ad un territorio, come hanno fatto in Francia. Fanno eccezione vini come il Chianti, il Barolo, il Trento Doc o il Franciacorta, che invece sono iconici di un territorio.
E proprio la Franciacorta ha aperto a nuovi vitigni per far fronte ad un clima che cambia, come l'Erbamat (che poi è una vecchia varietà recuperata). Mentre i disciplinari di produzione delle principali denominazioni oggi chiedono di usare questa o quella varietà, con poche eccezioni. Oltralpe invece, sia il Consorzio di Tutela del Bordeaux che dello Champagne, hanno introdotto delle modifiche.
Bisogna poi considerare le preferenze dei consumatori e il timore, da parte dei produttori, di perdere quote di mercato nel caso si cambi vitigno. Preoccupazioni, a mio avviso, infondate. Durante l'ultima edizione del Vinitaly ho partecipato ad una degustazione al buio in cui erano presenti dei vini 100% Pinot e blend con vitigni Piwi. Personalmente non sono riuscito ad individuare le bottiglie "tagliate" con le uve resistenti. E credo che anche molti consumatori non noterebbero differenze.
Molte varietà hanno centinaia di anni alle spalle
(Fonte foto: AgroNotizie®)
Ad ogni modo, la vite si è propagata uguale a se stessa per secoli, complice anche la difficoltà di migliorarla geneticamente con gli incroci tradizionali, che richiedono un lasso di tempo anche di vent'anni. Questo non vuole dire che non esistano vitigni "nuovi", frutto del miglioramento tradizionale. Basti pensare allo Chardonnay o al Cabernet Sauvignon, ma anche al Merlot o al Sangiovese, che hanno una storia certamente più recente. Ma la viticoltura, rispetto alla frutticoltura in generale, ha un tasso di innovazione molto più lento.
Eppure oggi le Tea, le Tecnologie di Evoluzione Assistita (tra cui cisgenesi e genome editing), promettono di far guadagnare il tempo perduto, con un miglioramento genetico mirato e veloce, in grado di "aggiornare" i vitigni che oggi tanto amiamo senza snaturarne l'identità.
Per capire a che punto è la ricerca siamo stati presso EdiVite, spin off dell'Università degli Studi di Verona, che per primo ha messo in campo piante di Chardonnay editate per resistere alla peronospora. Siamo poi andati all'Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante (Ipsp) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Torino per incontrare Giorgio Gambino, Irene Perrone e Chiara Pagliarani, gruppo di ricerca che si occupa da molti anni di miglioramento genetico della vite. Lavoro che viene fatto a quattro mani con il Crea Viticoltura ed Enologia di Conegliano, diretto da Riccardo Velasco. Crea che nella sede di Turi (Bari) sta invece lavorando sulle uve apirene. Ed infine abbiamo parlato con Marco Stefanini, responsabile del progetto di miglioramento genetico della Fondazione Edmund Mach, nonché tra i fondatori dell'Associazione Piwi International, che da anni lavora sulla selezione di vitigni resistenti tramite incroci.
In questi laboratori, tra le altre tecniche, si utilizza il genome editing, alla cui base c'è il costrutto CRISPR-Cas9, che permette di modificare singoli geni in maniera molto specifica. E la cisgenesi, che permette di trasferire un gene tra due specie sessualmente compatibili.
Vitigni Tea, una questione di suscettibilità
Quando si vuole sottolineare la necessità di rendere i nostri vitigni resistenti alle malattie fungine si cita sempre un numero: la viticoltura occupa il 3% della superficie coltivata dell'Europa, ma consuma il 65% dei fungicidi. Un paradosso che non è più sostenibile, né a livello ambientale né economico, soprattutto per una coltura voluttuaria, non strettamente necessaria all'alimentazione umana.
Uno dei cuori pulsanti dell'innovazione varietale in Italia è EdiVite, spin off dell'Università degli Studi di Verona, fondato da Mario Pezzotti, decano dei genetisti italiani e già presidente della Società Italiana di Genetica Agraria (Siga). Proprio Pezzotti ha messo in campo le prime viti di Chardonnay resistente alla peronospora, poi distrutte.
Il gruppo di Pezzotti ha lavorato sul silenziamento del gene DMR6, Downy Mildew Resistant 6. In condizioni normali, DMR6 è attivo nella pianta e partecipa alla regolazione della quantità di acido salicilico presente nei tessuti, una molecola fondamentale nel sistema immunitario vegetale. Quando il gene funziona regolarmente, abbassa i livelli di acido salicilico: è come se mettesse un freno all'allarme interno della pianta. Questo freno è utile per evitare che la pianta "sovra-reagisca" a stimoli banali, ma è controproducente quando si verifica un vero attacco fungino. Infatti, un basso livello di acido salicilico rende la vite più permissiva verso l'ingresso e lo sviluppo del patogeno.
Il campo sperimentale con le piantine di Chardonnay resistenti
(Fonte foto: Università degli Studi di Verona)
Ora entra in gioco il genome editing. Utilizzando il CRISPR-Cas9, i ricercatori sono stati in grado di mutare il gene DMR6 in modo mirato, disattivandolo. Una volta che DMR6 è silenziato, la vite non è più in grado di ridurre l'acido salicilico, che rimane quindi alto nei tessuti. E cosa succede? Che il fungo trova un ambiente ostile e fatica a svilupparsi.
"Nello Chardonnay abbiamo ridotto la suscettibilità, che è concettualmente differente rispetto ad introdurre un gene di resistenza", ci spiega Mario Pezzotti. "Qui non stiamo dotando la pianta di nuove armi contro la peronospora, ma semplicemente togliamo di mezzo un freno ai suoi meccanismi di difesa, che quindi si attivano".
Viti Tea e resistenza ai patogeni
Se lo spegnimento dei geni di suscettibilità rende la penetrazione del fungo più difficoltosa, ma comunque possibile, la resistenza è invece un processo attivo, in cui la pianta riconosce il patogeno e cerca di bloccarlo. Un esempio di questo approccio sono i geni NLR, presenti nelle specie di vite americana, che attraverso gli incroci si è tentato di introdurre nelle varietà europee (ad esempio con i cosiddetti vitigni Piwi).
Con il termine NLR ci si riferisce ad un'intera famiglia di geni di resistenza che svolge un ruolo chiave nel riconoscere specifici attacchi da parte di patogeni, fungendo da sentinelle molecolari all'interno delle cellule vegetali.
In pratica, quando i geni NLR sono presenti le cellule della pianta sono in grado di riconoscere la presenza del fungo e di "suicidarsi", un meccanismo che viene definito "risposta ipersensibile". Nella sostanza, la cellula, per evitare che il fungo si diffonda nei tessuti, interrompe le sue funzioni e muore, facendo terra bruciata intorno al patogeno, che non può quindi espandersi. Il risultato è che sulla superficie della foglia sono presenti delle piccole macchie necrotiche, corrispondenti all'area da dove è partita l'infezione.
"Grazie alle Tecnologie di Evoluzione Assistita, in particolare alla cisgenesi, oggi è possibile prendere un gene NLR da una vite resistente e inserirlo in una varietà pregiata come Chardonnay o Nebbiolo, mantenendo inalterate tutte le caratteristiche enologiche, ma conferendo loro una resistenza", ci spiega Marco Stefanini della Fondazione Edmund Mach.
La principale virtù dei geni NLR è che, se funzionano, possono conferire una resistenza forte e specifica, paragonabile ad un vaccino. Ma c'è un rovescio della medaglia: proprio perché l'interazione con il patogeno è molto specifica, i geni NLR sono vulnerabili all'evoluzione del fungo, che può mutare i suoi effettori e sfuggire al riconoscimento. È per questo che oggi si parla sempre più spesso di "piramidalizzazione", cioè l'introduzione di più geni di resistenza contemporaneamente nella stessa pianta, per rendere più difficile al patogeno superare tutte le difese.
Come spiega Pezzotti, "se la pianta possiede una sola 'serratura' e il fungo trova la chiave, ha vinto. Ma se deve forzare tre o quattro serrature diverse, diventa molto più difficile". Lo stesso Stefanini conferma: "Oggi usiamo genitori piramidalizzati per gli incroci: hanno più geni accumulati e i figli mostrano una resistenza molto più robusta".
Dalla cellula alla pianta: la rigenerazione della vite
Ad oggi sono noti diversi geni di resistenza e di suscettibilità sui quali si può intervenire. Il problema non è tanto il loro silenziamento (genome editing) o la loro introduzione (cisgenesi), quanto la rigenerazione della vite a partire da una cellula. Non tutte le varietà di vite infatti si comportano allo stesso modo nel processo di rigenerazione. Se Chardonnay e Sangiovese hanno una buona capacità rigenerativa, l'ottenimento di piante editate risulta particolarmente arduo, ad esempio, nel caso di quelle varietà, come il Nebbiolo, recalcitranti al processo di rigenerazione cellulare che sta alla base delle Tea, l'embriogenesi somatica.
A spiegarci come funziona questo processo sono i ricercatori del gruppo di Gambino al Cnr-Ipsp di Torino, uno dei team più all'avanguardia in Europa nell'ambito del miglioramento genetico della vite.
Il processo di embriogenesi somatica in vite prende avvio dalla produzione del callo embriogenico a partire da tessuti fiorali immaturi raccolti in vigneto nel mese di maggio. Il callo embriogenico altro non è che un ammasso di cellule indifferenziate, che potremmo paragonare alle cellule staminali umane. Cellule, dunque, che possiedono le competenze necessarie a generare nuovi individui. Il callo embriogenico viene poi utilizzato per l'isolamento dei protoplasti.
Esemplari di vite editata conservati presso i laboratori del Cnr-Ipsp
(Fonte foto: Tommaso Cinquemani - AgroNotizie®)
Spiega Giorgio Gambino: "Il protoplasto è una cellula vegetale a cui viene rimossa la parete cellulare. È nuda, fragile, ma rappresenta il punto di partenza ideale per introdurre modificazioni genetiche mirate". La parete cellulare è infatti uno dei principali ostacoli all'introduzione del complesso molecolare CRISPR-Cas9 all'interno della cellula: senza rimuoverla, questa tecnica non potrebbe essere applicata in modo efficace, se non attraverso l'impiego di vettori batterici, come Agrobacterium tumefaciens.
Attraverso degli appositi enzimi viene eliminata la parete cellulare e si ottiene la "cellula nuda", la cui membrana, attraverso l'uso di sostanze come il PEG (polietilenglicole) o le lipofectamine, viene resa permeabile all'ingresso della proteina Cas9, la forbice molecolare, e di piccole molecole di Rna guida (gRNA) che insieme formano un complesso responsabile della correzione del Dna in un punto specifico del genoma.
Il ruolo dell'Rna guida è infatti proprio quello di guidare precisamente i tagli dell'enzima Cas9 sul gene di interesse.
A questo punto i meccanismi di riparazione della cellula intervengono e si possono avere tre scenari:
- Ripristinano il gene. In questo caso l'editing fallisce.
- Ripristinano il gene con delle modifiche che ne bloccano il funzionamento. In questo caso si ha il silenziamento del gene (o knockdown).
- Ripristinano il gene con delle mutazioni che ne modificano il funzionamento. Solo una volta che la pianta si sarà sviluppata sarà poi possibile studiarne l'effetto.
I protoplasti vengono successivamente posti in coltura su appositi substrati, affinché si sviluppino in embrioni somatici e successivamente in nuove piante. "Si tratta di un processo estremamente complesso, che a Verona ho studiato per quarant'anni e che oggi possiamo sfruttare per la rigenerazione della vite dopo il genome editing", sottolinea Mario Pezzotti.
Ma come fare a sapere se gli embrioni possiedono il gene mutato, se cioè il genome editing ha avuto successo? I ricercatori procedono con analisi approfondite: uno screening iniziale viene fatto mediante una particolare tecnica PCR che permette di identificare quelle piante che portano la mutazione d'interesse e quelle che invece non sono state modificate. Successivamente, le piante selezionate vengono analizzate tramite sequenziamento del Dna per ottenere ulteriore conferma dell'avvenuta mutazione.
"Su 1 milione di protoplasti riusciamo a rigenerare solo mille embrioni, da questi otteniamo solo cento piante, di cui appena dieci sono editate. Si tratta dunque di un lavoro molto complesso e lungo. Per arrivare ad avere delle piante radicate ci vuole più di un anno", sottolinea Gambino. "Ma non è nulla in confronto ai quindici anni che servirebbero con il breeding tradizionale".
Una vite rigenerata presso i laboratori del Cnr-Ipsp
(Fonte foto: Tommaso Cinquemani - AgroNotizie®)
L'uso dei protoplasti consente di operare su una cellula singola che, dopo l'editing, rigenera l'intera pianta. "Questo è essenziale - precisa Irene Perrone - per avere la certezza che tutte le cellule della pianta siano geneticamente identiche e che la mutazione sia presente in tutto l'organismo vegetale". In altre parole, si evitano le chimere, cioè quelle piante in cui sono presenti cellule con un patrimonio genetico differente.
C'è poi un altro aspetto cruciale che caratterizza il metodo della "cellula nuda": l'editing avviene in modo Dna-free. "Per introdurre il complesso CRISPR-Cas9 non usiamo l'infezione mediata da Agrobacterium tumefaciens, tecnica ormai rodata che è stata impiegata per decenni nello sviluppo di piante Ogm", sottolinea Gambino.
"Il nostro obiettivo è l'ottenimento della sola mutazione desiderata, senza che vi sia introduzione di sequenze di Dna esogeno nel genoma della pianta che si intende editare. In base a queste caratteristiche, le piante editate non dovrebbero ricadere nella normativa sugli Ogm, ma in quella delle Ngt adesso in discussione a Bruxelles".
Presso il Cnr-Ipsp di Torino i ricercatori stanno lavorando sull'editing di diversi caratteri in una decina di vitigni. Ad esempio, si lavora sul miR482, un piccolo Rna capace di regolare negativamente l'espressione di alcuni geni coinvolti nei principali processi di difesa della pianta. In altre parole, l'obiettivo dei ricercatori è spegnere il gene che spegne il sistema di difesa della vite.
Quando il patogeno infetta i tessuti vegetali, produce delle molecole che attivano la trascrizione di miR482, che con la sua attività stimola nella pianta le condizioni ideali per la diffusione del fungo. In questa specifica situazione il macchinario di difesa della vite è, infatti, fortemente inibito. Ad esempio, la pianta non riesce a sintetizzare molecole bioattive contro il patogeno, né a predispone barriere fisiche, come l'ispessimento della parete cellulare.
Ma perché una pianta dovrebbe avere un gene che tiene sopito il proprio sistema di difesa contro i funghi? Un motivo è che mantenere costantemente attivi i meccanismi di difesa comporta per la pianta un grosso dispendio di energia che, invece di essere usata per lo sviluppo vegetativo o la crescita del grappolo, viene dirottata nella difesa da possibili patogeni. Ci si aspetta che spegnendo l'azione del miR482 si ottengano piante più tolleranti nei confronti di un ampio spettro di patogeni. Tuttavia, sarà importante monitorare le caratteristiche agronomiche delle viti ottenute per verificare eventuali cambiamenti a livello di resa produttiva. E qui si spiega l'esigenza di poter valutare le piante editate anche in campo.
Non solo uva da vino
Per decenni il nostro Paese ha potuto vantare delle varietà di uva da tavola di elevata qualità, come l'uva Italia o Victoria. Si tratta di viti in grado di produrre grappoli e acini di grandi dimensioni, dolci e dall'aroma inconfondibile. Ancora oggi esportiamo uva in tanti Paesi, come ad esempio quelli del Golfo, ma non come un tempo.
Le nostre varietà stanno subendo la concorrenza di quelle apirene, senza semi. Ai consumatori piace l'idea di mangiare un acino senza avere il fastidio di dover sputare i semini. E infatti sui banchi della grande distribuzione le varietà storiche stanno lasciando il passo a quelle senza semi, la cui genetica è però in mano a poche aziende, nessuna delle quali italiana.
Il Crea ha un suo programma di breeding tradizionale per ottenere nuove varietà apirene, 100% italiane, ma al contempo, nella sede di Turi (Bari), sta lavorando anche per editare le varietà Italia e Victoria per renderle senza semi.
Grappoli di uva Italia
(Fonte foto: Mario Colapietra)
Come ci spiega Riccardo Velasco, "attraverso il genome editing stiamo riproducendo nelle nostre varietà la mutazione che è tipica dell'uva sultanina, la Thompson Seedless, conosciuta da molti anni".
L'obiettivo dunque è quello di mantenere invariati i caratteri tipici della varietà Italia e Victoria, ma di rendere gli acini maggiormente apprezzabili dal pubblico moderno, che ormai si è abituato a mangiare l'uva senza semi.
Il Crea di Conegliano, insieme al Cnr di Torino, sta poi lavorando su molte altre varietà, come Glera, Sangiovese e Pinot Nero, per renderle meno suscettibili a peronospora ed oidio. Si sta lavorando quindi, oltre che sul miR482, anche sullo spegnimento dei geni MLO, che conferiscono resistenza all'oidio, e su NPR3, un gene che reprime regolatori chiave delle risposte di difesa delle piante e il cui editing conferisce una maggiore tolleranza sia ad oidio che a peronospora.
Il nodo dei cambiamenti climatici
Non solo difesa, perché il Crea è impegnato anche nell'adattamento della vite agli stress ambientali, come la carenza idrica. I ricercatori hanno infatti silenziato il gene GST per stimolare l'accumulo di sostanze antiossidanti e di ormoni chiave nella regolazione fisiologica delle risposte a stress, come l'acido abscissico, in modo da rendere le piante ottenute capaci di tollerare meglio la carenza di acqua.
"A rendere una vite resistente alla siccità ci vuole relativamente poco, la vera sfida è quella di rendere la vite sì resistente, ma anche produttiva", sottolinea Velasco. "Quando una pianta non ha acqua a sufficienza, mette in atto dei meccanismi di difesa, tra cui la chiusura degli stomi e l'arresto della crescita. Anche se ogni pianta ha un comportamento a sé, è difficile far sì che l'organismo continui a fotosintetizzare nutrienti in un contesto di elevate temperature e carenza idrica".
Tutti i ricercatori concordano che l'adattamento delle viti agli stress ambientali sia la sfida più impegnativa. Se infatti spegnere un gene per rendere una pianta meno suscettibile ad un fungo è abbastanza semplice, mettere mano al complesso di geni che regola il metabolismo di una vite e la sua risposta a stress complessi, come quelli ambientali, è tutt'altra cosa.
Alla Fondazione Edmund Mach, ad esempio, stanno lavorando con la cisgenesi per importare in Vitis vinifera un gene che riduce il numero di stomi per superficie fogliare. L'idea, ci spiega Marco Stefanini, è quella di ridurre la capacità di scambio gassoso della pianta, nella speranza che riesca a gestire meglio la risorsa idrica e ad avere al contempo buone produzioni.
Viti Tea, un garbuglio normativo
Come abbiamo accennato all'inizio, la vite è una pianta che non ha subìto alcun processo di miglioramento genetico ed è dunque poco attrezzata per rispondere agli attacchi dei patogeni e agli effetti dei cambiamenti climatici. Le Tea sono dunque uno strumento utile a far progredire questa coltura, senza stravolgerne l'identità.
Ci sono però una serie di problemi normativi. Prima di tutto, finché a Bruxelles non daranno l'ok al Regolamento sulle Ngt, le piante ottenute con le Tea saranno assimilabili agli Ogm e quindi, di fatto, vietate in Europa. In secondo luogo, una nuova varietà, perché possa essere protetta da privativa vegetale, deve essere distinta rispetto al parentale d'origine.
Francesco Mattina, presidente del Community Plant Variety Office (Cpvo), che abbiamo interpellato su questo tema, ha affermato che basta l'introduzione di una resistenza a dare diritto a registrare una nuova varietà, ma in questo caso il problema si sposterebbe sul fronte dei consorzi di tutela, che dovrebbero modificare i propri disciplinari per introdurre le nuove varietà, anche se geneticamente sostanzialmente uguali a quelle oggi in uso.
Dati sulla resistenza delle varietà sviluppate da EdiVite
(Fonte foto: Università degli Studi di Verona)
Facciamo un esempio. Se oggi il disciplinare di produzione del Barolo prevede che si possa utilizzare solo il vitigno Nebbiolo, con le Tea è possibile preservare l'identità varietale, rendendo però la pianta resistente ai funghi o agli stress idrici. Si modificano dunque pochi geni, su oltre 30mila, ottenendo sostanzialmente dei cloni. Se sono cloni, non sono difendibili dal punto di vista commerciale, a meno che non si chieda una privativa, che però può essere concessa solo nel caso di nuove varietà, che quindi non rientrano nei disciplinari di produzione.
A complicare il quadro c'è il fatto che, stante le norme attuali, per i costitutori sarebbe preferibile proteggere le nuove varietà con il brevetto, iscrivendo i vitigni al solo Registro nazionale. Oggi infatti una azienda può brevettare l'applicazione di un gene per uno specifico scopo in una pianta. Si può, ad esempio, proteggere con il brevetto per innovazione industriale l'utilizzo del gene xyz che conferisce a determinate viti la resistenza al fungo hjk.
E il brevetto, per ragioni che approfondiamo in questo articolo, offre maggiori garanzie ai costitutori, anche se pone un freno al miglioramento vegetale delle colture nel suo complesso.
Chi ha paura delle Tea?
A fine 2019 scrissi un articolo dal titolo "Chi ha paura delle New Breeding Techniques?" in cui, oltre a spiegare le tecniche che allora venivano denominate Nbt (oggi Tea), parlavo di chi si opponeva a queste innovazioni. Se alcuni stakeholder, come Coldiretti, hanno cambiato opinione, altri, come FederBio, rimangono intransigenti, affermando che le Tea non sono altro che "nuovi Ogm".
Approfondire questo tema richiederebbe troppo spazio, ma occorre dire almeno tre cose.
Primo, i giudici comunitari, il Parlamento Ue, la Commissione Ue e il Consiglio Ue sono d'accordo sul fatto che la vecchia normativa sugli Ogm non sia adatta a regolamentare le Tea, proprio perché sono qualcosa di diverso dagli Ogm. I tempi di approvazione del nuovo regolamento stanno diventando biblici, ma dovremmo essere in dirittura d'arrivo.
Secondo, le Tea apportano modifiche che sarebbero ottenibili con i tradizionali metodi di incrocio e potrebbero verificarsi ogni istante in natura. Ad esempio, un ricercatore che ha editato una vite, potrebbe dire di aver trovato, in un vigneto, una pianta di Nebbiolo resistente a peronospora e non ci sarebbe modo di affermare il contrario.
Terzo, le modifiche apportate con le Tea sono molto precise e il rischio che si verifichino mutazioni off-target è molto basso. Ad ogni modo, una volta che si è ottenuta una nuova pianta, occorre semplicemente sequenziare il suo genoma per individuare le differenze rispetto alla pianta non modificata e così facendo si possono trovare molto facilmente eventuali off-target.
Le viti Tea fioriranno solo con una mentalità aperta
La vite ha attraversato i secoli intatta, custode di una tradizione agronomica ed enologica che ha reso il vino un prodotto identitario e culturale. Ma oggi, in un mondo radicalmente mutato, pretendere che una pianta selezionata nel Medioevo si adatti senza evoluzione genetica alle sfide odierne è una forma di ostinazione che rischia di diventare miope.
Le Tecnologie di Evoluzione Assistita rappresentano una straordinaria opportunità per aggiornare la vite alle esigenze del presente, conservandone però l'anima. Non si tratta di rivoluzionare i vitigni che amiamo, ma di renderli più sostenibili, meno dipendenti dagli agrofarmaci, più capaci di resistere agli stress ambientali, più competitivi in un mercato che cambia. Il tutto con modifiche minime.
Ma la tecnologia da sola non basta. Serve una visione culturale, una volontà politica e una strategia normativa che permettano alla ricerca di diventare innovazione concreta nei vigneti. È necessario superare i timori ideologici, offrire regole chiare e strumenti di tutela, aprire spazi nei disciplinari per varietà "aggiornate", senza snaturare il legame con il territorio.
Nel confronto tra innovazione e conservazione, le Tea indicano una terza via: quella dell'intelligenza agricola. Una via che non cancella la tradizione, ma la accompagna con la consapevolezza che anche le piante, per continuare a raccontare la nostra storia, hanno bisogno di evolvere.
Autore: Tommaso Cinquemani