Conoscere e gestire la stanchezza del terreno, ecco come
Il ruolo del Dna e le strategie agronomiche per ripristinare la vitalità del suolo. Una nuova chiave di lettura per comprendere una problematica agricola che è sempre esistita

Per contrastare la stanchezza del terreno la cosa più importante da fare è aumentare la biodiversità (Foto di archivio)
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La stanchezza del terreno è una condizione del suolo che riduce le rese delle colture e pregiudica la qualità dei prodotti agricoli.
Fino a qualche anno fa, quando si parlava di stanchezza del terreno, si faceva riferimento a una malattia multifattoriale, difficile da diagnosticare e ancor più da risolvere. Insomma, c’era molta confusione.
Da qualche anno però, non è più così. È stata scoperta l'origine del fenomeno e, di conseguenza, sono più chiari anche gli interventi agronomici utili per contrastarlo.
Il principio alla base della stanchezza del terreno è l'autotossicità da self Dna che le piante esercitano sulle conspecifiche, cioè quelle piante appartenenti alla stessa specie.
Nella pratica funziona così: quando frammenti di piante cadono al suolo e iniziano a decomporsi, rilasciano nel terreno il proprio Dna; se questo si accumula oltre una certa soglia, inizia a esercitare un effetto inibitore sulla crescita degli individui della stessa specie.
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Per questo i sistemi monocolturali sono quelli che soffrono di più la stanchezza: coltivare la stessa specie per anni sullo stesso terreno porta a un accumulo sempre maggiore di Dna conspecifico. Questo altera l'equilibrio tra suolo e pianta, indebolisce le colture, ne riduce la resa e le rende più vulnerabili a stress e malattie.
Il self Dna e la stanchezza del terreno
Il mantra è semplice: se si coltiva sempre la stessa specie, il terreno si ammala. Si tratta di un fenomeno che è sempre esistito e che in passato si risolveva con le rotazioni.
A studiarlo nel dettaglio è stato il professor Stefano Mazzoleni, dell'Università degli Studi di Napoli, con il suo team di ricerca. Il punto di partenza è stato l'osservazione dei processi di decomposizione della sostanza organica.
Facendo germinare semi su lettiere di piante diverse e di piante conspecifiche i ricercatori hanno scoperto che proprio le lettiere di piante della stessa specie inibivano lo sviluppo delle piantine.
In seguito, utilizzando il carbone attivo per assorbire eventuali composti allelopatici, le lettiere conspecifiche restavano fitotossiche. Il colpevole doveva quindi essere un composto stabile, resistente alla degradazione, solubile in acqua (visto che nelle risaie ricoperte d'acqua il fenomeno della stanchezza non c'è), e specie specifico.
Il Dna risponde a tutte queste caratteristiche. Da questi esperimenti i ricercatori hanno intuito che l'accumulo di Dna frammentato della stessa specie (self Dna) rilasciato dalla lettiera in decomposizione agiva come una tossina invisibile capace di rallentare o bloccare lo sviluppo della stessa specie.
Nei terreni stanchi si manifesta calo delle rese, fallanze, germinazione assente, crescita stentata e un aumento della pressione di patogeni e parassiti. Secondo questa teoria, è il self Dna a indebolire la pianta, rendendola vulnerabile all'attacco di funghi e batteri già presenti nel suolo, spesso in forma saprofitica. Il Dna diventa quindi la causa e il patogeno la conseguenza.
La scoperta è stata fatta su oltre 30 specie appartenenti a ecosistemi mediterranei naturali ed è stata successivamente confermata anche in laboratorio, attraverso test in vitro su piante coltivate come rucola, lattuga, basilico, pomodoro, grano, fagiolo, eccetera. I semi, posti in piastre Petri contenenti Dna estratto dalla stessa specie, hanno mostrato un chiaro effetto inibitorio: al momento della germinazione si è osservata necrosi delle radici. Al contrario, gli stessi semi posti su piastre con Dna di specie diverse hanno germinato senza problemi, sviluppandosi normalmente.
In campo, però, la stanchezza si manifesta in modo più articolato. Entra in gioco la tipologia del suolo - sabbioso o argilloso - e il regime di irrigazione adottato. Questi fattori influenzano i tempi con cui si manifesta il fenomeno. Per esempio, nei suoli argillosi la stanchezza compare più lentamente grazie alla maggiore capacità di trattenere le molecole, ma una volta instaurata risulta più difficile da eliminare. Nei suoli sabbiosi, al contrario, l'effetto emerge prima ma può essere contrastato più facilmente, poiché l'acqua contribuisce a dilavare il Dna accumulato nel terreno.
Come contrastare la stanchezza del terreno
Se la malattia è del suolo è da lì che bisogna partire. Lo sentiamo dire sempre più spesso: il suolo non è un semplice supporto o un substrato da correggere con lavorazioni e fertilizzanti, ma è un ecosistema vivo che va curato e mantenuto sano.
Proprio la salute del suolo è al centro dell'agricoltura rigenerativa, infatti molte delle pratiche che si possono mettere in atto per gestire la stanchezza del terreno, e quindi ridurre l'effetto dell'autotossicità da self Dna, sono pratiche promosse anche dagli agricoltori rigenerativi.
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Infatti, per contrastare la stanchezza del terreno, la cosa più importante da fare è aumentare la biodiversità in campo.
Come si può fare?
In passato il rimedio più semplice adottato era la rotazione delle colture tra una stagione e l'altra o di anno in anno. Ma in un frutteto, caratterizzato quindi da piante perenni, si può aumentare la biodiversità con l'inerbimento o le colture di copertura e l'agroforestazione.
Le colture di copertura possono essere seminate in qualsiasi periodo dell'anno; possono essere specie erbacee annuali o perenni, sia singole oppure in miscugli di specie. Generano moltissima biodiversità e alla fine del loro ciclo possono essere utilizzate come sovescio o pacciamatura, in questo modo i residui colturali avranno un Dna diverso da quello della specie coltivata contrastando la fitotossicità da self Dna.
Ovviamente le colture di copertura hanno innumerevoli altri vantaggi a livello agroecologico: arricchiscono il suolo di sostanza organica, migliorano la sua struttura lavorandolo con le radici, lo proteggono dall'erosione e attirano insetti utili.
L'agroforestazione consiste nella coltivazione multipla di specie arboree e/o arbustive perenni (da legno, da frutto o altro prodotto) e di seminativi e/o pascoli nella stessa unità di superficie, con la possibilità, anche, di aggiungere degli animali (silvopascolo o pascolo arborato). In questo modo i residui vegetali saranno eterospecifici e non ci sarà accumulo di self Dna. L'agroforestazione, inoltre, riduce la pressione dei parassiti e dei patogeni e permette di diversificare il reddito.
A queste pratiche si può aggiungere la concimazione organica, fedele compagna per aumentare la fertilità del terreno, migliorarne la struttura e l'attività microbica. Contribuisce a ridurre l'accumulo di self Dna quando si utilizzano prodotti di origine organica ad alta eterospecificità, come il compost, il vermicompost, il tè di compost o il biochar.
Autore: Vittoriana Lasorella