I sementieri favorevoli a eliminare l'obbligo di sementi biologiche

Chi produce in regime di agricoltura biologica dovrebbe utilizzare sementi biologiche certificate. Si tratta però di un obbligo disatteso dal 95% degli agricoltori, che oggi ottengono deroghe grazie ad un sistema farraginoso. Vista la situazione, Assosementi chiede di abolire questo obbligo

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Chi opera in biologico dovrebbe usare solo sementi da agricoltura biologica (Foto di archivio)

Fonte immagine: © piotrszczepanek - Adobe Stock

L'agricoltura biologica italiana è in salute. Circa il 20% della Sau nazionale è gestito con questo metodo, posizionando l'Italia al secondo posto in Europa, dopo l'Austria. Anche se prati stabili, pascoli e colture permanenti (come l'olivo) sono tra le colture più diffuse, cubando il 53% della superficie a biologico, anche i seminativi hanno un peso significativo, pari a circa il 42%. Campi che, secondo la legge sul biologico (Regolamento 2018/848), dovrebbero essere seminati con sementi biologiche (prodotte con metodo biologico).

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Si tratta però di un obbligo che in larga parte viene disatteso. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli agricoltori riescono ad ottenere delle deroghe all'uso del seme biologico e ricorrono a quello convenzionale, non trattato, meno costoso. Per cercare di sanare questa situazione il Governo ha varato, nel 2023, un Piano Nazionale delle Sementi Biologiche che, partito ad inizio 2025, vedremo se sarà in grado di centrare l'obiettivo.

 

"Stante la situazione mi chiedo che senso abbia andare avanti con un obbligo che viene sistematicamente disatteso da più di trenta anni. Sarebbe meglio eliminarlo del tutto, lasciando gli agricoltori liberi di usare le sementi convenzionali e le ditte sementiere di fornire alle aziende ciò di cui hanno bisogno". A parlare è Alberto Lipparini, direttore di Assosementi, l'associazione che riunisce le ditte sementiere italiane e che da anni cerca di trovare un modo per far rispettare quanto previsto dalla normativa europea.

 

Alberto Lipparini, perché secondo lei questo obbligo dovrebbe essere abrogato?
"Perché non funziona. È un vincolo teorico, non pratico. Il Regolamento Europeo impone l'utilizzo esclusivo di sementi biologiche, ma da trent'anni il sistema si regge sulle deroghe. Solo nel 2024, secondo i dati del Crea, sono state presentate quasi 100mila richieste. Quindi mi chiedo: che senso ha continuare a mantenere un obbligo che nei fatti non è mai stato rispettato? Sarebbe più coerente riconoscere la realtà, abrogare l'obbligo e rendere l'uso delle sementi biologiche una scelta, magari incentivata, ma non imposta. A quel punto avremmo un sistema più trasparente ed efficiente, che premia chi davvero crede nel biologico, senza ingessare il mercato".

 

Ma non c'è il rischio che così si disincentivi la produzione di sementi biologiche?

"Al contrario. Oggi molte sementi prodotte secondo metodo biologico vengono poi vendute come convenzionali, perché gli agricoltori preferiscono chiedere la deroga e usare seme più economico. Questo paradosso mina la sostenibilità del sistema. Le ditte sementiere producono al buio, senza sapere se il prodotto sarà effettivamente richiesto. Togliere l'obbligo, o almeno rivederlo, significherebbe liberare energie e rendere il mercato più dinamico. Chi vuole il seme biologico lo può avere, ma senza costringere tutti a sottostare a una burocrazia farraginosa".

 

Alberto Lipparini, direttore di Assosementi

Alberto Lipparini, direttore di Assosementi

(Fonte foto: Assosementi)

 

A proposito di burocrazia: come giudica il Piano Nazionale delle Sementi Biologiche?

"Il Piano, varato nel 2023, nasce da un'intenzione giusta: ridurre le deroghe e promuovere sementi biologiche autentiche, adatte a questo tipo di agricoltura. Ma nella pratica si è rivelato troppo complesso. Il sistema delle manifestazioni di interesse, le liste rosse, gialle e verdi, e la Banca Dati Nazionale sono strumenti pensati per fare incontrare domande e offerta, ma in molti casi hanno avuto l'effetto opposto. In alcuni casi le ditte sementiere, pur producendo sementi biologiche, evitano di inserirle nella banca dati per non esporsi al meccanismo delle deroghe e ritrovarsi il magazzino pieno invenduto. È un controsenso".

 

Ci può spiegare meglio?

"Gli agricoltori a cui non interessa usare seme biologico vanno sulla banca dati pubblica e vedono quali sono le varietà che sono disponibili. Poi scelgono scientemente quelle che non sono presenti, chiedendo la deroga, che puntualmente viene concessa. In questo modo l'agricoltore ha il suo seme convenzionale e la ditta sementiera, che si è impegnata a produrre seme biologico, rimane con la merce invenduta".

 

Cosa impedisce alle sementi biologiche di affermarsi sul mercato?

"Principalmente due fattori: il prezzo in generale più alto e la mancanza di una domanda stabile. Il seme biologico costa di più, sia per le minori rese in campo sia per i maggiori controlli. Se non si crea un meccanismo che dia certezze ai produttori, come contratti chiari o una programmazione delle superfici, le aziende continueranno a produrre poco. Per questo abbiamo proposto di semplificare la manifestazione di interesse, il meccanismo pensato per cercare di orientare la produzione di sementi biologiche, proponendo l'indicazione della specie e non più della varietà, e di introdurre un incentivo economico per chi usa seme biologico. Un contributo commisurato alla specie e alla differenza di costo rispetto al convenzionale".

 

Quali sono i canali attraverso cui oggi viene prodotta e usata semente biologica?

"Ce ne sono due. Il primo è quello 'visibile', che passa per la banca dati e il mercato regolato. Il secondo, più importante ma meno tracciabile, è quello su contratto. Parliamo di aziende, italiane e straniere, che commissionano la produzione di sementi biologiche per esigenze interne. In quel caso il seme non entra nel mercato libero e sfugge anche alle statistiche. In questo segmento si lavora bene, ma resta una nicchia. Il problema è il mercato aperto, dove la domanda è instabile e le regole sono distorte".

 

Dal punto di vista del miglioramento varietale, che cosa si sta facendo per rendere il biologico più sostenibile?

"Le aziende sementiere stanno investendo molto nella selezione di varietà specificamente pensate per il biologico, non semplicemente adattate. Parliamo di genetiche più rustiche, capaci di dare rese stabili anche con pochi input e in condizioni difficili, come scarsità d'acqua o suoli poveri. La resistenza alle malattie è un fattore chiave, perché nel biologico molti trattamenti sono vietati. Ci sono già risultati tangibili, e nei prossimi anni vedremo entrare in commercio varietà sempre più adatte alla produzione biologica vera, non solo sulla carta".

 

Una opportunità potrebbe essere rappresentata dalle Tea, le Tecnologie di Evoluzione Assistita?

"Io sono fermamente convinto che le Tea abbiano un grande potenziale e che possano rendere le varietà oggi più diffuse adatte ad essere coltivate in un clima che cambia. Per questo non capisco perché le associazioni del biologico siano contrarie, mi sembra uno strumento che aumenta la sostenibilità del settore sotto ogni punto di vista".

 

In conclusione, cosa servirebbe davvero per rilanciare l'uso delle sementi biologiche?

"Serve coerenza. Oggi abbiamo un sistema che impone un obbligo, ma al tempo stesso rende più conveniente aggirarlo. Dobbiamo uscire da questa ipocrisia. Le strade sono due: o si rende l'uso del seme biologico realmente obbligatorio, ma allora bisogna sostenerlo con incentivi, programmazione e trasparenza; oppure si toglie l'obbligo, lasciando che sia il mercato, ben regolato, a scegliere. In ogni caso, servono scelte chiare. E i sementieri sono pronti a fare la loro parte".

Autore: Tommaso Cinquemani

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