Migliorare la fotosintesi, una strada per sfamare il mondo
La fotosintesi è il processo con cui le piante producono nutrienti sfruttando acqua, CO2 e luce del sole. Un processo estremamente complesso e poco efficiente, che se fosse ottimizzato renderebbe possibile sfamare l'umanità e, allo stesso tempo, ridurre la superficie coltivata lasciando spazio alla biodiversità e alle foreste
La fotosintesi è alla base della vita sulla Terra (Foto di archivio)
Fonte immagine: © fotolesnik - Fotolia
La vita sulla Terra dipende dal Sole e tutti gli organismi vivono grazie ai vegetali che rendono biodisponibile questa energia attraverso la fotosintesi. Quando addentiamo una mela o beviamo un bicchiere di latte, stiamo ingerendo molecole organiche necessarie al nostro sostentamento prodotte a partire dalla CO2 atmosferica con l'energia dei fotoni.
Se la fotosintesi è il processo alla base della vita, è anche molto inefficiente e talmente complessa da rendere il suo miglioramento estremamente difficoltoso. Basti pensare che di tutta la luce che colpisce una foglia in condizioni di laboratorio, solo il 4,5% si trasforma in biomassa, il resto viene o riflesso (un altro 10%), oppure disperso sotto forma di calore (circa l'85%). In condizioni di campo la resa è sempre inferiore all'1%. Che cosa accadrebbe dunque se fossimo in grado di migliorare la fotosintesi, raddoppiando l'efficienza con cui la luce produce cibo?
"Riusciremmo a produrre il doppio rispetto ad oggi mantenendo inalterate le superfici agricole. Oppure potremmo ridurle, riconsegnando alla natura ampie porzioni di terra coltivata, e comunque riusciremmo a sfamare la popolazione mondiale che è aumentata di molto negli ultimi decenni", ci racconta Roberto Bassi, professore presso l'Università degli Studi di Verona che ha dedicato la sua carriera alla comprensione di quanto accade all'interno dei cloroplasti, quegli organuli che trasformano l'energia solare nelle cellule vegetali.
Una macchina quantistica per alimentare la vita
La fotosintesi ha inizio quando un fotone colpisce una delle molte molecole di clorofilla che sono legate ai fotosistemi. Se la lunghezza d'onda della luce è appropriata, un elettrone viene eccitato. Cioè, salta ad un orbitale più lontano dal nucleo che richiede un livello energetico maggiore. Energia che viene immagazzinata transitoriamente invece che perdersi nello spazio.
Questo "stato eccitato" dura solo pochi nanosecondi (10-9 s), ma l'energia può essere trasferita di clorofilla in clorofilla, trattenendola per tempi più lunghi, grazie alla stretta disposizione delle molecole nei fotosistemi (i grandi complessi proteici situati nelle membrane dei cloroplasti a cui le clorofille sono legate) fino a raggiungere il centro di reazione, presente in ogni fotosistema, dove l'energia di eccitazione elettronica viene trasformata in un flusso di elettroni che segue una vera e propria catena di trasporto fino a produrre NADPH+H+. Questo equivale a caricare una pila elettrica la cui corrente verrà poi usata dal metabolismo cellulare per ridurre la CO2 a zuccheri.
Per le biosintesi è necessario anche un altro fattore: l'ATP, che viene sintetizzato dal flusso elettronico i cui componenti solo localizzati alternativamente su ciascuna superficie della membrana fotosintetica. Ogni volta che un elettrone viene trasferito da un anello all'altro della catena, trasporta un protone, rilasciandolo sul lato opposto. Un fenomeno simile a quello che accade nei mitocondri durante la respirazione cellulare. I protoni accumulati vengono usati dall'enzima ATP sintasi per produrre ATP, la moneta energetica di tutte le cellule. Insieme ATP e NADPH forniscono energia per il secondo stadio della fotosintesi, che non richiede luce: la fissazione della CO2.

La struttura di un cloroplasto
(Fonte foto: Nicola Olivieri, agronomo)
Nel cosiddetto Ciclo di Calvin, che si svolge nello stroma del cloroplasto, l'anidride carbonica viene fissata in composti organici grazie all'azione dell'enzima RuBisCO. RuBisCO, infatti, grazie all'energia fornita da ATP e NADPH, catalizza la reazione tra CO2 e uno zucchero a cinque atomi di carbonio producendo due molecole con tre carboni ciascuna, che vengono trasformati in zuccheri usando NADPH e ATP. È in questa fase che l'energia luminosa catturata all'inizio del processo produce molecole utili per la crescita e la sopravvivenza della pianta.
Se vi siete persi non c'è da stupirsi, perché la fotosintesi è un processo estremamente complesso. E poco efficiente, come vedremo.
Perché la fotosintesi è così poco efficiente
Se il meccanismo della fotosintesi è affascinante per la sua capacità di trasformare CO2 in zuccheri, dal punto di vista energetico è sorprendentemente inefficiente. "Obiettivamente, la fotosintesi è una macchina termica: oltre il 95% dell'energia solare assorbita non viene utilizzata per costruire biomassa ma per generare calore", sottolinea Bassi. Ciò nonostante la produzione fotosintetica è stata sufficiente a trasformare il pianeta Terra producendo l'ossigeno che respiriamo, il cibo che mangiamo e abbassare la CO2 dal 4% a 400 ppm immagazzinandola come legno e humus del terreno.
Una prima limitazione deriva dalla concentrazione di CO2 nell'atmosfera, che è molto bassa. Poiché la fotosintesi è una reazione chimica che combina anidride carbonica e acqua per formare zuccheri e ossigeno, quando uno dei reagenti scarseggia l'intero processo rallenta. È anche per questo che, paradossalmente, l'aumento di CO2 atmosferica ha comportato, negli ultimi decenni, un leggero incremento della produttività vegetale (pari al 12% in cinquanta anni).
L'enzima che fissa la CO2 si chiama RuBisCO, una molecola chiave ma anche punto debole della fotosintesi. È uno degli enzimi più lenti che si conoscano: compie un solo ciclo catalitico ogni decimo di secondo. E come se non bastasse, può commettere un errore fondamentale: confondere la CO2 con l'O2, a causa della loro simile struttura molecolare. Quando questo accade, anziché produrre zuccheri genera sostanze tossiche per la pianta che devono poi essere smaltite, con un ulteriore spreco di energia.
Una terza fonte di inefficienza è la variabilità della luce solare. Le piante sono costrette a convivere con un'irregolarità intrinseca: l'alternarsi del giorno e della notte, delle nuvole, dell'ombra. "È come guidare in autostrada accelerando e frenando di continuo: oltre a sprecare carburante, si danneggia il motore", osserva Roberto Bassi. Le piante si adattano a queste fluttuazioni, ma ciò comporta una forte perdita di efficienza.
Infine, vi è un'altra inefficienza strutturale: nei campi coltivati, le foglie più in alto assorbono gran parte della luce, più di quanto ne possano utilizzare, mentre quelle più basse restano in ombra, producendo poco o nulla. "Molte foglie interne si trovano sotto il punto di compensazione: respirano più di quanto fotosintetizzano e quindi non contribuiscono alla crescita della pianta", spiega Bassi. Questo significa che buona parte dell'energia catturata (almeno il 50%) dall'apparato fogliare viene dispersa, invece che utilizzata in modo produttivo.
Come possiamo migliorare la fotosintesi
Alla luce di queste limitazioni, la comunità scientifica si sta mobilitando per cercare soluzioni che rendano la fotosintesi più efficiente. Una strada è quella di ridurre la quantità di clorofilla nelle foglie superiori, rendendole più chiare, in modo da permettere alla luce di filtrare verso quelle più in basso e rendere la loro fotosintesi produttiva.
"Le piante in natura competono tra loro per la luce e i nutrienti, quindi tendono a produrre più clorofilla possibile per ombreggiare i vicini impedendo loro di crescere. Ma in agricoltura questa strategia non ha senso dato che le piante vengono piantate a distanza regolare e non hanno bisogno di competere. Possiamo quindi riprogrammarle per essere più solidali tra loro e dividersi più equamente i fotoni disponibili".
Un'altra linea di ricerca consiste nel migliorare la protezione delle piante dalla luce in eccesso, uno dei principali fattori di stress abiotico. Il gruppo di Bassi al Dipartimento di Biotecnologie a Verona, ad esempio, ha identificato una proteina chiamata Lhcb8, presente in specie adattate a condizioni estreme, come il pino nero subartico e la Welwitschia mirabilis del deserto della Namibia, capace di rendere le piante più resistenti alla luce intensa. Introdurre il gene codificante Lhcb8, tramite tecniche biotecnologiche, in altre piante, renderà le piante coltivate tolleranti allo stress luminoso.
Per le piante che crescono in condizioni di scarsissima luminosità, si studiano piante acquatiche come la Posidonia oceanica, che riesce a crescere fino a 45 metri di profondità, in un ambiente dove poca luce filtra attraverso la colonna d'acqua sovrastante. Analizzando la sua struttura molecolare, Bassi e i suoi collaboratori presso la Stazione Zoologica Anton Dohrn e al Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano hanno scoperto che il trasferimento dell'energia luminosa all'interno dei suoi fotosistemi è più rapido che nelle piante terrestri. "Questi adattamenti, se trasferiti nei sistemi agricoli, potrebbero migliorare l'efficienza delle foglie in ombra nei campi coltivati", afferma il ricercatore.
Ma se la RuBisCO è così lenta e imprecisa, si può sostituire? "Alcuni ricercatori, al Max Planck Institute for Terrestrial Microbiology di Marburgo, stanno provando a ridisegnare completamente il Ciclo di Calvin, cercando enzimi alternativi alla RuBisCO", spiega Roberto Bassi. Oppure si guarda alle piante C4, come mais e sorgo, che hanno sviluppato una strategia per concentrare l'anidride carbonica e tenere la RuBisCO lontana dall'ossigeno. Tuttavia, replicare questa via metabolica nelle piante C3 (come il riso o il frumento) richiederebbe anche modifiche anatomiche alla struttura fogliare, una sfida ancora lontana dalla soluzione.
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Verso una nuova agricoltura
Il miglioramento della fotosintesi non è solo una frontiera scientifica, ma una delle chiavi per affrontare le grandi sfide dell'agricoltura contemporanea: produrre di più consumando meno suolo, acqua ed energia, e con un minore impatto ambientale. Come sottolinea Roberto Bassi, "oggi occupiamo il 30% delle terre emerse per coltivare. Se riuscissimo a raddoppiare l'efficienza fotosintetica, potremmo coltivare la metà della superficie e lasciare più spazio alla natura".
Le tecnologie di genome editing, la spettroscopia avanzata, la criomicroscopia elettronica e l'intelligenza artificiale stanno rendendo sempre più possibile ciò che fino a ieri sembrava solo un'utopia. Serve però investire nella ricerca di base, perché, come ricorda il professore, "i fenomeni fondamentali della vita sono spesso controintuitivi. Solo comprendendoli davvero possiamo trovare soluzioni operative efficaci".
Autore: Tommaso Cinquemani