Olivo, in salita la selezione di portainnesti
Se in tante colture i portainnesti sono ormai uno standard a cui è difficile rinunciare, in olivicoltura il loro utilizzo non è mai decollato. Cerchiamo di capire le motivazioni con Rosario Muleo, professore dell'Università degli Studi della Tuscia che da anni studia questo aspetto
In olivicoltura l'uso dei portainnesti non è mai decollato (Foto di archivio)
Fonte immagine: AgroNotizie®
Se si entra in un qualunque vigneto, frutteto o in una coltivazione orticola sotto serra, si vedranno piante innestate. L'uso dei portainnesti è infatti diventato lo standard in tantissime colture di pregio. In viticoltura, complice il diffondersi della fillossera nell'Ottocento, non c'è pianta che non cresca sulle radici di vite americana, resistente al parassita. Ma anche pesco, albicocco, melo, pomodoro e melanzana, sfruttano gli aspetti positivi di questa tecnica.
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Ma perché si usano i portainnesti? Le motivazioni sono molteplici. Si può ricercare la resistenza a specifiche malattie del suolo oppure ai nematodi. Si può voler rendere la pianta più resistente alla siccità o adatta a specifici terreni. Oppure si può voler controllare la vigorìa di una specie o varietà particolarmente forte, o, al contrario, rinforzarla, accorciando i tempi di entrata in produzione. Insomma, ci sono portainnesti per tutti i gusti e la ricerca, sia pubblica che privata, è costantemente impegnata a selezionare nuove tipologie.
Tutto questo però non accade in olivicoltura, dove la ricerca è rallentata e dove è meno frequente trovare delle piante innestate. Per capire le motivazioni di questa arretratezza abbiamo incontrato Rosario Muleo, professore di Fisiologia Vegetale all'Università degli Studi della Tuscia che da anni studia questo argomento.
Un ritardo con radici storiche ed economiche
Se l'uso dei portainnesti ha rivoluzionato molte colture, per l'olivo le cose sono andate diversamente. Come spiega Muleo, il motivo va ricercato innanzitutto nella storia agricola del Mediterraneo, dove l'olivo ha trovato spazio in contesti marginali, in terreni collinari e spesso in promiscuità con altre colture.
"Fino a metà Ottocento la produzione industriale di olio era destinata principalmente ad usi lampanti, per l'illuminazione delle città europee, più che all'alimentazione. Questo, unito al frazionamento delle proprietà ed alla consociazione con altre coltivazioni ha impedito lo sviluppo di un'olivicoltura intensiva che potesse giustificare investimenti in ricerca vivaistica sui portainnesti".
Diversamente da quanto accaduto con la vite, spinta verso l'innesto dall'emergenza fillossera, non si è mai generata una pressione economica o fitosanitaria tale da richiedere un uso sistematico dei portainnesti in olivicoltura. Ancora oggi la valutazione di un uliveto avviene spesso contando le piante, non calcolando la produttività per ettaro, segno di un approccio rimasto radicato in pratiche tradizionali.
In viticoltura, invece, l'alto valore aggiunto della produzione ha spinto i centri di ricerca pubblici e i vivaisti ad investire nella ricerca di portinnesti, certi di avere un mercato ricettivo e disposto a pagare per soluzioni innovative.
Un esempio di innesto di Leucocarpa su Canino
(Fonte foto: Rosario Muleo, professore dell'Università degli Studi della Tuscia)
Ostacoli biologici e genetici
Alle ragioni storiche si aggiungono quelle biologiche. "L'olivo è un arbusto con una longevità elevata e una notevole capacità di ricacciare dopo eventi avversi, come le gelate, e questo ha ridotto, nel passato recente, la necessità di rinnovare frequentemente gli impianti con tecniche di innesto", spiega Muleo.
Inoltre, le peculiarità genetiche dell'olivo complicano ulteriormente la selezione di portainnesti clonali, per l'estrema variabilità genetica. Molte cultivar non sono autocompatibili ed è dunque molto difficile ottenere delle linee pure, con fenotipi stabili, da impiegare in programmi di incrocio per realizzare portainnesti geneticamente stabili. La variabilità genetica, anche all'interno di una stessa cultivar, è molto elevata, tanto che un Leccino o un Frantoio possono manifestare, nel comportamento fenotipico, differenze significative da zona a zona.
"Il fatto di avere più popolazioni è utile sotto il profilo dell'adattamento a climi e terreni differenti, ma nella selezione dei portainnesti avere a che fare con popolazioni autosterili è un grosso svantaggio", specifica Rosario Muleo.
A ciò si aggiunga la ridotta conoscenza fisiologica dell'interazione fra cultivar e portinnesto che controlla la riduzione della vigorìa o delle caratteristiche legate alla regolazione dello sviluppo e della produzione della pianta, anche a condizioni di stress. "Diversamente dal melo o dal pesco, dove specifici portainnesti consentono di modulare dimensioni e vigorìa della pianta, nell'olivo queste influenze si manifestano in modo molto meno prevedibile", precisa Muleo.
Una eccezione a questo quadro di attività vivaistiche si trova nella zona del pistoiese, a Pescia, e anche in Sicilia, dove i semenzali delle cultivar Canino e Minutolo, e in misura minore Frantoio e Moraiolo, vengono utilizzati come portainnesto per la produzione vivaistica. "Canino è una cultivar vigorosa ed è utilizzata come portainnesto per accelerare la crescita degli astoni innestati con varietà di maggiore diffusione come Leccino, Leccio del Corno o Frantoio", spiega Rosario Muleo.
"In questo modo si evita che le giovani piante assumano precocemente una forma cespugliosa, facilitando l'allevamento in forme di impianto ordinate. Tuttavia, questa pratica ha finalità esclusivamente vivaistiche e non porta con sé vantaggi agronomici in termini di regolazione della chioma, di controllo fisiologico e di resistenza a stress o malattie".
Un innesto di Leccino su Minutolo
(Fonte foto: Rosario Muleo, professore dell'Università degli Studi della Tuscia)
La ricerca non si ferma
Nonostante le difficoltà, la ricerca non ha mai abbandonato l'idea di selezionare portainnesti adatti all'olivicoltura. "Negli Anni Ottanta e Novanta sono stati avviati studi, in particolare dopo le gelate, per ridurre la vigorìa delle piante e favorire forme di allevamento a densità più elevata", continua Muleo. Tuttavia, mancando progetti di finanziamento strutturati come quelli destinati a pesco, pero o melo, la ricerca sui portainnesti dell'olivo è andata avanti lentamente.
Il gruppo del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Perugia ha brevettato un semenzale di Frantoio (FS17, detto anche Favolosa) con comportamenti a media vigorìa. Alcuni gruppi di ricercatori, tra cui quello di Palermo e lo stesso Muleo, stanno lavorando a incroci che mirano a selezionare soggetti in grado di limitare la crescita in altezza e ridurre l'ingombro delle chiome, rendendo le piante più adatte alla raccolta meccanizzata. Ma le difficoltà non mancano, "le piante che presentano bassa vigorìa spesso hanno problemi di radicazione e di crescita del calibro del fusto, rendendo complicato l'innesto successivo", chiarisce Muleo.
"Inoltre, usare un portainnesto poco vigoroso per cercare di contenere lo sviluppo della chioma può portare ad una fase giovanile della pianta estremamente lunga e dunque antieconomica. In azienda abbiamo delle piante messe a dimora nel 2006 che non hanno ancora fruttificato".
Tea, una via promettente ma non priva di ostacoli
A fronte di queste difficoltà, le Tecnologie di Evoluzione Assistita (Tea) potrebbero rappresentare una svolta. "Con le Tea possiamo intervenire su geni chiave che controllano la vigorìa, la lignificazione dei tessuti e i processi di fioritura dell'olivo", spiega il professore Muleo. Tuttavia, l'applicazione di queste tecnologie richiede la possibilità di rigenerare piante da tessuti cellulari in vitro, un processo che nell'olivo risulta ancora estremamente complesso e poco efficiente.
"Siamo riusciti a rigenerare piante da callo o da protoplasti, ma si tratta di episodi isolati. Senza protocolli ripetibili, anche l'uso delle Tea resta confinato alla ricerca di base", conclude Rosario Muleo. A complicare il quadro si aggiungono, infine, la frammentazione varietale e la variabilità genetica dell'olivo, che rendono lungo e costoso il processo di validazione dei portainnesti selezionati.
Autore: Tommaso Cinquemani